Proprio ieri vi consigliavo la lettura del post di Massimo Lizzia proposito della campagna “Punto su di te”.

Beh oggi ve lo consiglio di nuovo. Dovete proprio leggerlo.

Perché stamattina mi sono imbattuta nell’ennesima critica alle pubblicità progressocontro la violenza di genere, una lunghissima e coltissima dissertazione che ci spiega che il manifesto che rappresenta la violenza di genere non va bene.

Prima di addentrarmi nei meandri della mente dell’esperto affabulatore, vorrei fare una piccola premessa.

Qual è il problema che dobbiamo affrontare? La violenza contro le donne o le campagne pubblicitarie? La violenza contro le donne ci disturba tanto quanto ci disturbano i manifesti?

I manifesti degradano le donne (tutte le donne), ci viene detto da tutti questo esperti di comunicazione, perché la “rappresentano” come vittima (Questo sedicente e presunto femminismo che considera le donne solo come vittime).

Io sono dell’idea che sia la violenza a degradare le donne, non il manifesto.

Perché molte donne sono vittime di violenza, non è una rappresentazione: è la verità, che ci piaccia o no.

Prendiamo questa foto:

imageLa notizia: a Roma l’ennesimo ragazzo che aspettava la metropolitana è stato aggredito e brutalmente picchiato semplicemente perché gay.

La pagina web ci mostra il volto tumefatto della vittima. Perché? Perché così, per chi legge, l’aggressione diventa reale. C’è il sangue, le tumefazioni, il dolore della persona che ha subito un atto ingiustificato e crudele.

A cosa serve questa immagine? A stimolare l’empatianel lettore.

Che cos’è l’empatia? L’empatia, detto in modo semplice semplice, è la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato.

A tutti noi sarà capitato: vedo un livido e ricordo il mio livido, il livido di quella volta che mi sono male, con tutte le sensazioni che ho provato; vedo il sangue e ricordo quella volta che io ho perso sangue: quella persona sanguina come sanguino io, quella persona è come me, quella persona potrei essere io. Quella persona sono io.

E questo fa paura.

Il pensiero “quella persona potrei essere io” è un pensiero perturbante e istinitvamente lo si rifiuta: no, a me non potrebbe mai capitare, io non in pericolo, io sono al sicuro, a me non succederà mai. Allora si colpevolizza la vittima: sicuramente c’è in lui qualcosa che ha scatenato quello che ha subito, qualcosa che dentro di me non c’è.  Lui soffre, ma io non soffrirò mai così.

Lui è gay, io no. Sospiro di sollievo. Basta non mostrarsi troppo gaye non mi succederà nulla.

Picchiato perché straniero, picchiato perché omosessuale, picchiato perché drogato… Come se fossero tutte buone ragioni per picchiare qualcuno. Non lo sono, naturalmente, sono solo tutte buone ragioni per sentirsi al sicuro: non mi drogo, non sono gay, sono italiano, quindi posso dormire sonni tranquilli. Perché lui non è me.

E’ un meccanismo che chi si occupa di violenza di genere conosce bene: indossava la minigonna, aveva bevuto troppo, cosa faceva lì fuori a quell’ora?, non aveva lavato la tuta da calcetto, aveva aperto un nuovo profilo facebook

Questi non sono ottimi motivi per fare del male ad una donna: sono tanti piccoli (inutili) salvagenti gettati alle altre donne. Se non aprirai troppi profili facebook sarai al sicuro, se metti la gonna sotto al ginocchio non ti succederà niente, bevi con moderazione e tutto andrà bene.

Il web pullula di guide salvavita: quello che manca è una chiara e inequivocabile condanna della violenza contro un altro essere umano, chiunque egli sia, maschio o femmina, italiano o straniero, gay o etero, debole o forte.

E manca anche nell’articolo di Christian Raimo dal quale sono partita.

Vi cito alcune frasi:

“Di questo discorso sono protagonisti donne vittime e uomini violenti, o donne che dovrebbero denunciare e uomini buoni che sanno dare l’esempio. Non si parla di educazione; sostituita dalla denuncia. E si coccola questo pseudo-concetto molto moderno che si chiama “sensibilizzazione”, che sta a voler dire un po’ qualunque cosa. La violenza di genere in tutti i casi è vista come una sorta di malattia sociale da stigmatizzare socialmente per criminalizzarla. Nessuna parte di questo discorso prevede che tra uomini violenti e uomini buoni possa esistere una casistica più ampia; nessuna parte di questo discorso affronta la questione in senso culturale; nessuna parte di questo discorso prova a problematizzare la questione della violenza tout-court e della violenza di genere in particolare.”

Attenzione: l’articolo non parla di singoli uomini criminalizzati, non si preoccupa dello stigma sul singolo individuo! Quella che non deve essere criminalizzata è proprio la violenza di genere. Tutta la violenza di genere, a prescindere da chi la agisce.

E’ vero che all’interno della casistica ci sono una moltitudine di situazioni diverse, perché siamo tutti diversi, e non c’è niente di male ad approfondire ogni singolo caso con le sue peculiarità, ma per amore della complessità si fa passare subdolamente l’idea che la violenza di genere in quanto fenomeno non può essere “criminalizzata”.

Ma che significa criminalizzare?

La criminalizzazione in criminologia è quel processo mediante il quale i comportamenti individuali sono trasformati in atti criminali attraverso la legge e il sistema giurisdizionale. La norma penale identifica quei comportamenti che chiamiamo reati.

La giustificazione comunemente accettata per invocare il diritto penale contro un comportamento criminale è il danno procurato a terzi.Criminalizzare un dato comportamento, pertanto, non nasce dall’esigenza di punire il reo, quanto dalla necessità di tutelare le persone danneggiate da quel comportamento e dissuadere altri individui dal metterlo in atto.

Che cosa si intende per stigma?

La stigmatizzazione è quel fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa a un membro (o a un gruppo) della comunità. Lo stigma è uno strumento utilizzato dalla comunità per identificare i soggetti definiti come devianti, quelli cioè che violano le norme accettate da una collettività.

Qui viene usato in realzione ad un comportamento, non ad un soggetto o ad un gruppo di persone. Ci viene detto: gli atti che possono essere identificati come “violenza di genere” non vanno stigamtizzati. Non gli individui, quindi, ma ciò che fanno.

E’ una distinzione importante.

Davvero non vogliamo stigmatizzare e criminalizzare “la violenza di genere”? Dobbiamo invece accettarla e stabilire che è un comportamento che non deve andare incontro a disapprovazione o condanna?

E’ questo il modo giusto per debellare la violenza?

Lo chiedo a voi.

Un’altra frase:

“È piuttosto deludente se non deprimente come una parte del nuovo femminismo, o meglio della ricezione nei media del nuovo femminismo, abbia di fatto ristretto una visione politica complessa a una mera “questione femminile”. Nel meno peggiore dei casi le donne vengono convocate a discutere di maternità, relazioni, crisi della famiglia…; nel peggiore vengono chiamate in causa come vittime di una società maschilista: persone da aiutare. Se è vero che nell’ultimo Parlamento, nelle giunte locali delle ultime elezioni, la componente femminile è leggermente maggiore delle precedenti legislature, è vero anche la prospettiva femminista è quasi completamente assente – ridotta appunto a una militanza testimoniale, da comunità ginocratica, genetica più che di genere, chiamata in causa al massimo per i femminicidi e simili.”

Come è deprimente, signore mie, parlare di maternità, relazioni, crisi della famiglia! Argomentucci da salotto per signorine: a chi frega davvero qualcosa della maternità? La politica è altro, è complessità, è problematizzazione… parlare di maternità o femminicidio relega le donne nella loro patetica “comunità ginocratica” (qualunque cosa si intenda con questa buffa espressione). Insomma, le femministe devono imparare ad occuparsi dei problemi nel loro complesso, devono entrare nella politica vera(quella che non si è mai occupata della maternità, visto che ancora oggi le donne vengono licenziate al ritorno dal viaggio di nozze), perché se insistono ad occuparsi della “ristretta questione femminile” (e siamo più del 50% della popolazione di questo paese, noi donne, ricordiamocelo, ma sempre una “ristretta questione” rimaniamo) non possono che suscitare gli sbadigli annoiati di chi riesce a farsi un quadro più ampio della faccenda.

Insomma le femministe parlino pure: ma non di questioni che riguardano “solo” le donne.

Di che cosa ci dovremmo occupare? Qual è l’argomento trascurato, ignorato, dimenticato?

Beh, l’uomo.

Un’altra frase:

La maggior parte dei maschi – e questa è la tragedia sociale più grave – non ha modelli maschili utili, plastici per un mondo che cambia, spesso non ha capacità di adattamento, di confronto con una qualunque crisi se non forme di backlash appunto – recupero dell’aggressività –, evocazioni di “uomini forti”, irrigidimento. E anche quando si accorge che i modelli maschili che ha a portata di mano sono inservibili, non sa come disfarsene né come sostituirli. Facciamo un esempio senza volare alto: prendiamo un rapporto di coppia che finisce. Beverly Fehr o Germain Dulac – citate da Volpato – mostrano come di fronte all’elaborazione di un lutto sentimentale, gli uomini sanno dare meno sostegno delle donne e in generale sono meno preparati dal punto di vista dell’intelligenza emotiva a superare la fine di una storia, o ad aiutare chi finisce una storia. Ecco che spesso, lo sappiamo bene come non solo tra i sessantenni, le depressioni maschili gravi nascono da un abbandono da cui anche a trent’anni non ci si riesce più a riprendere. Quanti miei coetanei, lasciati, ho visto chiudersi su se stessi, perdere il lavoro, tornare a casa dei genitori, cominciare a essere dipendenti dagli psicofarmaci…

Eccoci qua: la tragedia sociale più grave.

Lo so che il signor Raimo cita un sacco di testi femministi e si è letto il bellissimo libro della Volpato e Carla Lonzi e tutto quello che vi pare. Ma l’unica tragedia che gli interessa davvero, quella che sta in cima a tutte le tragedie, è la sofferenza dell’uomo.

L’uomo è da sempre il centro dell’universo e ancora non sono stati scritti abbastanza libri da convincerlo che quello non è il suo posto. E non lo è, signore, non lo è, anche se sta lì da un sacco di tempo, non ci dovrebbe proprio stare. Siamo noi che lo lasciamo in pace e ci limitiamo a girargli intorno, esibendo tutta la materna tolleranza e la disponibilità e la comprensione che da sempre ci contraddistinguono…

Se qualche paragrafo prima Raimo ha biasimato il vittimismo dei movimenti maschilisti come i “papà separati” (“Mettete a confronto gli slogan e le modalità di lotta politica del movimento dei forconi, per dire, e quello dei padri separati: una deflagrazione di una rabbia scomposta, vittimistica”), nelle conclusioni palesa di essere affetto dal medesimo vittimismo e ci descrive questo ometto sperduto, privo di modelli cui aggrapparsi, depresso, bamboccione, farmaco-dipendente e incapace di elaborare emotivamente qualsiasi tipo di frustrazione.

E’ probabile che non se ne renda neanche conto.

Come è probabile che non si renda neanche conto che rimprovera alle donne quello che da sempre fanno gli uomini:

“Questo sedicente e presunto femminismo che considera le donne solo come vittime”.

Noi, mio caro Raimo: dal tuo articolo si evince che sono gli uomini che riescono a percepirsi e a rappresentarsi solo come vittime e lo fanno perché non hanno il coraggio di assumersi la piena responsabilità delle loro azioni criminali.

Allora hanno bisogno di invocare il disagio, la mancanza di riferimenti positivi, di educazione, di solidarietà…

Come ho già scritto altrove, responsabilità significa essere consapevoli delle conseguenze delle proprie condotte.Sono responsabile delle mie azioni perché sono libero di scegliere, perché di fronte ad una alternativa (uccidere/non uccidere) prendo da solo una decisione, assumendo un rischio. Se dopo aver ucciso, o picchiato, o stuprato, rivendico il diritto a non essere criminalizzato (e quindi disapprovato), vuol dire che non ho mai superato quell’egocentrismo infantile che impedisce al bimbetto di comprendere che tutti gli esseri umani sono interconnessi tra di loro e che ogni azione una volta compiuta può espandersi nello spazio e prolungarsi nel tempo ben al di là dei confini della mia individualità, andando a modificare le vite degli altri.

E ritorniamo a quei “danni procurati a terzi” della giurisprudenza.

L’uomo descritto da Raimo è un bambino che piagnucola “non volevo, non l’ho fatto apposta”, un Peter Pan insofferente all’età adulta che grida a gran voce “Non potevo fare altrimenti! Non è colpa mia!”

Io sono dell’idea che l’esistenza di tanti, tantissimi uomini che invece si comportano in modo non criminale (quegli uomini “buoni” dei manifesti che – guarda caso! – a Raimo non piacciono punto) basti a dimostrare che per l’uomo che la agisce la violenza di genere non è l’inevitabile conseguenza di un contesto sociale, bensì – in gran parte – una scelta individuale.

Per carità, ben venga l’educazione, ben venga l’auspicato “partire da sé”, è molto bello questo passo dell’articolo:

“Gli assenti ancora una volta, purtroppo viene da dire, sono stati gli uomini. Non sono mancati interventi pubblici, anche in luoghi importanti, ma la maggior parte di questi discorsi dei maschi, pur nella loro acutezza, mancano spesso dell’elemento essenziale che sarebbe utile per un dialogo: il partire da sé. Ossia: non tanto porsi il problema della violenza di genere, non tanto criticare i modelli di maschilismo invalsi, non tanto raccontare quando fummo colpevolmente cauti da non stare dalla parte delle donne vittime, quanto provare a esplorare la propria educazione sentimentale e sessuale maschile, la propria tensione verso la violenza, la propria somiglianza di genere rispetto ai questi incredibili bruti.

Ecco Raimo: parti da te e chiediti perché in mezzo a tanti bei discorsi, dopo aver letto tanti bei libri, senti ancora il bisogno di affermare che la violenza di genere non dovrebbe essere criminalizzata.

E’ ora che quel bambino piagnucoloso cresca. E non crescerà mai se non impara ad assumersi delle responsabilità.

Le donne cominciano ad essere stufe di fare da madri a uomini grandi e grossi.

Mi correggo: io sono stufa.

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