Con l’avvicinarsi della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne si moltiplicano le campagne sulla violenza contro le donne, appunto. Posto che è difficilissmo fare una campagna su questo tema, una cosa è certa: non si combatte la violenza con immagini che la esprimono. (Ne abbiamo discusso a lungo, gli anni scorsi, vedi ad esempio “Stai zitta, cretina”. E come sempre le campagne contro la violenza esprimono violenza). Analogamente aggiungo:

non si fanno uscire le donne dalla buca del vittimismo, se si continua a rappresentarle come vittime (e lo si fa anche quando si dice che no, vittime no). E ancora: non si elevano le donne di grado e di ruolo, se si continuano a riprodurre situazioni in cui si mostrano donne umiliate e degradate (e lo si fa anche quando si dice che no, degradate no).

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È ciò che fa per esempio l’ultima campagna “Punto su di te” della Fondazione Pubblicità Progresso: hanno affisso per strada manifesti con spazi che permettevano (o meglio, favorivano) un certo tipo di interventi, puntualmente arrivati. Dopo di che hanno filmato i risultati, hanno aggiunto un commento sonoro triste, et voilà il gioco è fatto: compassione, sgomento e pure un filo di autocompiacimento nel provare queste emozioni. Certo, la campagna vuole dirci: «Guarda, lo schifo in cui le donne devono vivere». Ma in realtà ripropone – per l’ennesima volta, a sua volta – un ennesimo rituale di degradazione delle donne.

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