Ieri è uscita su Repubblica la recensione su “Difendere la terra di mezzo” di Wu Ming 4. Ecco la versione integrale.

Qualche giorno fa il sismografo del web ha sussultato a causa della breve frase di uno dei giudici di Masterpiece, Andrea De Carlo, che consigliava a un concorrente di non “andarsi a buttare nel fantasy”. Qualunque fosse il reale pensiero dello scrittore, l’episodio è sembrato ribadire il vecchio pregiudizio dei letterati che considerano la narrativa fantastica e soprattutto fantasy come espediente per intrattenere il lettore e allontanarlo dalla realtà. A maggior ragione varrà la pena di leggere i saggi su J.R.R.Tolkien di Wu Ming 4, raccolti in Difendere la terra di mezzo (Odoya, pagg. 280, euro 18, con un testo di Thomas Shippey), e consultare la risposta che lo stesso Tolkien diede, nel 1947, a chi accusava Lo Hobbit di disimpegno ed evasione: “Non solo essi confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore, ma sembrerebbero preferire l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza del patriota”. Questo non significa che Lo Hobbit sia solo un’allegoria della prima guerra mondiale, dove Tolkien combattè, e che Il signore degli anelli lo sia della seconda, dove combatterono i suoi figli: la questione è più complessa, e Tolkien non si contrappose al canone modernista che ammetteva come “letterarie” solo le favole per adulti apertamente allegoriche (come Il signore delle mosche di Golding, che uscì nel 1954, insieme al capolavoro tolkieniano): tentò, invece, di dialogarvi, mostrando che le strade potevano essere molto più numerose di quelle tracciate da un pregiudizio critico fermo agli anni Venti del Novecento. Si dirà che non ha importanza: se la critica non riconobbe (e non riconosce) Il signore degli anelli come un classico della letteratura, i lettori lo amarono subito. Negli anni Cinquanta, intravidero in Frodo Baggins la versione hobbit del Marlon Brando de Il selvaggio; durante le rivolte studentesche del decennio successivo ne fecero un simbolo di libertà, e una copia del libro finì dentro la bisaccia del motociclista interpretato da Dennis Hopper in Easy Rider e nelle canzoni dei Led Zeppelin, prima di cambiare scenario (ma non immaginario) e di rinnovare il conflitto col Potere nelle galassie di Guerre Stellari. Ma l’enorme successo di Tolkien crea un problema all’intero del genere che si vuole da lui disceso, ed è quello degli epigoni, che, nella stragrande maggioranza dei casi, non riescono a staccarsi dal modello. Non lo fa Terry Brooks, che lo omaggia fin quasi al plagio nel suo ciclo di Shannarah e ugualmente conquista una platea immensa perché, spiega Wu Ming 4, “va a nutrire una nicchia di lettori rimasti orfani del loro autore di culto”. Neanche Stephen King, iniziando nel 1982 la saga La Torre Nera, riesce a evitare l’abbraccio a Tolkien pur cambiando l’ambientazione dal medioevo al western, e lo stesso George R.R. Martin, autore delle assai popolari Cronache del ghiaccio e del fuoco, racconta che il suo mondo potrebbe essere la Terra di Mezzo dopo la definitiva partenza degli Elfi, aggiungendo che “Il Signore degli Anelliè una montagna che si staglia su ogni altra opera di fantasy scritta prima e dopo”. Qual è dunque l’unicità di Tolkien, se si esclude (e si fatica a farlo) l’aver dedicato l’intera vita a costruire e perfezionare il proprio mondo letterario? E’ una questione di agnosticismo, sostiene Wu Ming 4: “le successive generazioni di scrittori di fantasy non si sono più poste l’ordine di problemi che Tolkien si poneva e che riversava nelle sue storie, o quantomeno non l’hanno fatto con la stessa urgenza. Non hanno più avuto bisogno di credere in alcunché né di mettere in discussione le proprie credenze. Per ritrovare la stessa serietà e gravità presenti nelle pagine di Tolkien occorre forse rivolgersi alla narrativa dei sopravvissuti ai campi di sterminio”. Tolkien, banalizzato da molta critica, frainteso o imitato, scriveva “perché credeva nella grande potenzialità dei miti e delle storie di dirci qualcosa su noi stessi, di fornirci almeno un barlume di luce con cui illuminare parzialmente la sostanza di cui siamo fatti.” Del resto, basta guardare l’intervista in cui il vecchio professore, rispondendo a una domanda sul suo capolavoro, estrae un foglietto dalla tasca e legge un passo di Simone de Beauvoir. Questo: “Non esiste una morte naturale; di ciò che avviene all’Uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mon¬do. Tutti gli uomini sono mortali: ma per ogni uomo la propria morte è un caso fortuito, e anche se la conosce e vi acconsente, una indebita violenza”. Subito dopo, commenta: “si può esse¬re d’accordo con queste parole oppure no, ma sono la chiave del Signore degli Anelli”.

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