E’ chiaro, è ovvio che in Doctor Sleepmolti cercheranno i piccoli piaceri o la piccola malignità comparativa di chi affronta un sequel, e qualcuno proverà a mettere in connessione ogni riga non solo con Shining, che è il dichiarato antefatto, ma con tutta l’opera di Stephen King, che del resto non ha mai fatto mistero di gradire i rimandi fra romanzo e romanzo e fra la propria opera omnia e la saga della Torre nera. L’approccio è più che legittimo, naturalmente:  ma l’invito è quello di provare a leggere Doctor Sleep (esce domani per Sperling&Kupfer, nella bella e partecipe traduzione di Giovanni Arduino) senza il peso del libro precedente. Shiningè un grande romanzo sulla paternità, la diversità, la solitudine. E’ anche una grande lezione su come si racconta la paura senza l’armamentario canonico del genere: le due pagine in cui il piccolo Danny è nel corridoio dell’Overlook hotel, supera l’estintore avvolto in spire come un rettile, fa pochi passi e avverte un piccolo tonfo, e immagina che quell’estintore sia un serpente che striscia verso di lui alzando la testa per colpire, e non osa girarsi, sono un compendio magistrale che ogni autore e anche ogni lettore del cosiddetto horror dovrebbe mandare a memoria.Doctor Sleep è altra faccenda: è come se il “puoi? posso” di Paul Sheldon in Misery, che lo porta a resuscitare plausibilmente la sua eroina morta e sepolta nel libro precedente, venisse applicato da una parte con il massimo della tecnica, dall’altra con il massimo della nostalgia.  Anche Doctor Sleep è un libro sulla paternità, come molti di King: credo che uno dei motivi per cui King non ami la versione cinematografica che Kubrick trasse da Shiningrisieda proprio nell’aver tagliato via la complessità del rapporto che lega Jack Torrance  a Danny. Jack è facile preda dell’entità che possiede l’Overlook perché è un alcolista, ed è un alcolista perché a sua volta è stato un figlio infelice ed è un uomo fragile e spaventato dalla sua stessa rabbia. Prima di diventare il “Dottor Sonno”, Danny passa attraverso la stessa paura e vive la stessa fragilità:  non solo perché, finita la terribile avventura dell’Overlook, alcuni dei suoi spettri sono tornati a fargli visita, ma perché quell’incontro finale, quel lampo in cui il padre riesce a dominare l’oscurità che lo ha imprigionato per tornare  a dimostrargli amore (e altro non dico: chi vuole rilegga Shining, senza guardare il film) pesa ancora sul suo cuore.  Sarà un bambino a suscitargli l’orrore verso se stesso e la sua esistenza allo sbando. Sarà un’adolescente, Abra, a restituirgli il senso e il fine della luccicanza e a portarlo a un’ulteriore, definitiva riconciliazione col suo essere figlio e il suo essere, sia pure non carnalmente, padre.Doctor Sleep è questo e altro. Chi ama il vecchio tocco kinghiano sarà lieto di ritrovare i ritmi serratissimi negli scontri con i vampiri psichici del Vero Nodo, che trovano nutrimento nella luccicanza e in chi la possiede. Chi predilige il King della maturità con la sua capacità introspettiva e la malinconia che fu de La storia di Lisey (ma anche di 22/11/63 e soprattutto di Joyland) avrà di che goderne: Rose Cilindro e i suoi seguaci sono, sì, villain, ma sono anche antagonisti sdruciti, crudeli ma infelici, relitti che percorrono le strade americane in camper esattamente come altri reduci di bei tempi andati. Fanno paura, e fanno anche pena: e il duello mentale fra la giovanissima Abra e Rose lascia anche un lievissimo moto di empatia verso la seconda, che non è semplicemente una regina nera sfavillante di perfidia, ma anche un’ombra che si intuisce destinata a svanire (magari è un azzardo, ma ci si potrebbe intuire che quel Nero-contro-Bianco che caratterizza, per dire, Salem’s Lot, oggi non ha più senso, e che anche i cattivi ormai sono almeno un po’ grigi). Poi ci sono le zampate di King, quelle che ti stringono il cuore di lettore, come il tocco di Danny che allevia il passaggio dei morenti: perché a questo serve (anche) la luccicanza, a rendere meno dolorosa la morte, a dare serenità a chi attraversa i mondi, a stemperare la paura di andarsene, che è il motivo stesso per cui di paura si scrive. Valgono, da sole, il libro. Sarebbe bello concentrarsi su questo e non sui confronti fra un romanzo e l’altro: nell’impossibilità di farlo, godetevelo. E’ un gran libro, se non si fosse capito.

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