Per esempio, cosa significa cambiare punto di vista nella narrazione? Non sto parlando di tecnica, nè di vie per la pubblicazione, che sembrano i due argomenti chiave del tempo. Mi interessa come la scrittura possa cambiare se stessi e contribuire a cambiare quel che ci sta attorno. Ieri parlavo degli autori che hanno assunto un punto di vista diverso per parlare di violenza contro le donne, anche. Oggi vi propongo un brano.Rose Madder è un romanzo non fra i più celebri di Stephen King. Per alcuni, neanche fra i più riusciti. A me piacque molto quando uscì, nel 1995, e mi piace ancor di più rileggendolo: racconta la storia di Rose, una giovane donna scialba e insicura, sposata a un poliziotto sadico e violento che la picchia ogni giorno, e le procura un aborto a forza di pugni. Ma Rose rimane. Finché, una mattina, vede una goccia di sangue sulle lenzuola. Quel che segue è il brano dove, per la prima volta, prende consapevolezza di quel che può cambiare nella sua vita.

La vide mentre faceva il letto. Era sul lenzuolo superiore, dalla sua parte, vicino a dove, dopo riassettato il letto, avrebbe posato il guanciale. Avrebbe potuto per la verità spostare il guanciale leggermente a sinistra e nascondere la macchia, che asciugandosi aveva assunto una brutta sfumatura di rosso, virato sul marrone. Sarebbe stato così facile farlo, che ne provò la tentazione, soprattutto perché non poteva cambiare il lenzuolo di sopra; non aveva altri lenzuoli bianchi puliti e se avesse sostituito quello mac-chiato con un lenzuolo a fiori, avrebbe dovuto sostituire anche l’altro, altrimenti lui avrebbe avuto a che ridire.Ma che roba, lo sentì protestare. Neanche due schifi di lenzuoli che vanno assieme, sotto bianco e sopra con i fiori. Gesù, ma non puoi proprio fare a meno di essere così pigra? Vieni qui. Voglio parlarti da vicino. Era ferma sul suo lato del letto in una striscia di sole primaverile, la femmina indolente che passava le sue giornate a pulire la casetta (un’impronta sull’angolo dello specchio in bagno bastava per un cazzotto) e a preoccuparsi di che cosa cucinargli per cena; era ferma lì a guardare la macchiolina di sangue sul lenzuolo, con la faccia così atonica e priva di animazione, che un estraneo l’avrebbe facilmente scambiata per una ritardata mentale. Credevo che questo stupido naso avesse smesso di sanguinare, pensò. Ne ero sicura. Lui non la colpiva spesso alla faccia, era troppo furbo. Le botte in faccia erano quelle che menavano quei poveri imbecilli ubriaconi che aveva arrestato a centinaia nella sua carriera di poliziotto in divisa prima e di agente della squadra investigativa poi. Se picchi in faccia troppo spesso una persona, mettiamo tua moglie, dopo un po’ la storia del ruzzolone giù per le scale o dello stipite della porta del bagno beccato in pieno nel cuore della notte o del rastrello su cui hai avuto la scalogna di mettere il piede nel giardino dietro casa, non funzionano più. La gente capisce. La gente parla. E alla lunga finisci nelle grane, anche se la donna tiene la bocca chiusa, perché sembra proprio che i bei giorni in cui la gente si faceva gli affari suoi siano acqua passata. Niente di tutto questo teneva comunque in conto il suo carattere. L’aveva brutto, un caratteraccio di quelli veri, così certe volte gli scappava la mano. Era successo la sera prima, quando gli aveva portato un secondo bicchiere di tè freddo e gliene aveva versato qualche goccia sulla mano. Pum, e il suo naso sprizzava peggio di una tubatura saltata prima ancora che lui si fosse reso conto di che cosa aveva fatto. Aveva visto l’espressione di ribrezzo sul suo viso davanti al sangue che le inondava bocca e mento, e subito dopo ansia e calcolo: e se le aveva davvero rotto il naso? Avrebbero dovuto tornare all’ospedale. Per un momento aveva pensato che stesse per pioverle addosso una battuta di quelle che la lasciavano raggomitolata in un angolo ad ansimare e piangere e a cercare di ritrovare un briciolo di fiato per poter vomitare. Nel grembiule. Sempre nel grembiule. In quella casa non si alzava la voce, non si elevavano obiezioni alla gestione e meno che mai si vomitava per terra… se ci tenevi a conservarti la testa ben avvitata tra le spalle. Poi era intervenuto il suo acutissimo senso di autoconservazione e le aveva portato una salvietta piena di ghiaccio e l’aveva condotta in soggiorno, dove l’aveva distesa sul divano con l’impacco premuto tra gli occhi lacrimanti. «È qui che devi metterlo», le aveva detto, «se vuoi arrestare velocemente l’emorragia e ridurre la tumefazione.» Era il gonfiore che lo preoccupava di più, naturalmente. L’indomani era giorno di mercato e non si poteva nascondere il naso gonfio con un paio di occhiali scuri come si fa con un occhio nero. Era tornato di là a finire la sua cena, filetto di pesce persico ai ferri e patate novelle arrosto. Il naso non si era gonfiato molto, come aveva constatato quella mattina con una rapida occhiata nello specchio (lui l’aveva già sottoposta a un accertamento che aveva chiuso con un cenno soddisfatto della testa prima di bere una tazza di caffè e uscire per andare al lavoro) e l’emorragia era cessata dopo non più di un quarto d’ora o giù di lì grazie all’impacco… o così aveva pensato. Se non che durante la notte, mentre dormiva, una goccia traditrice di sangue le era scivolata dal naso e aveva lasciato quella macchia, motivo per cui avrebbe dovuto disfare il letto e rifarlo, nonostante il mal di schiena. Aveva sempre mal di schiena da qualche giorno, le doleva anche piegandosi poco o sollevando pesi modesti. La schiena era uno dei suoi bersagli preferiti. A differenza di quelli che chiamava «rompimenti di faccia», a pestare uno nella schiena non si correvano rischi… se l’uno in questione sapeva tenere la bocca chiusa, s’intende. Norman lavorava ai suoi reni da quattordici anni e le tracce di sangue che sempre più spesso trovava nell’orina non la sorprendevano o preoccupavano più. Era solo uno in più nella lista degli aspetti sgradevoli dell’essere sposata, nient’altro, e c’erano probabilmente milioni di donne che se la passavano peggio. Migliaia in quella stessa città. Così l’aveva sempre vista lei, comunque, finora. Guardava la macchia di sangue e avvertiva un risentimento a cui non era abituata che le batteva nella testa, e sentiva qualcos’altro ancora, un formicolio, senza sapere che era la sensazione che si prova quando finalmente ci si sveglia. Sul suo lato del letto c’era una piccola sedia a dondolo che, per qualche inspiegabile ragione, aveva da sempre battezzato la Sedia di Pooh. Ora indietreggiò verso di essa, senza staccare gli occhi dalla macchiolina di sangue che spiccava così nitida nel bianco del lenzuolo. Si sedette. Rimase seduta sulla Sedia di Pooh per quasi cinque minuti, poi spiccò un balzo quando nella stanza risonò una voce e non si accorse lì per lì che era la sua. «Andando avanti così mi uccide», disse e, passato un primo momento di stupore, sospettò di essersi rivolta alla goccia di sangue, quella piccola parte di sé che era già morta, che le era scivolata dal naso per andare a morire sul lenzuolo. La risposta che le arrivò era dentro la sua testa ed era anche infinitamente più terribile dell’ipotesi che aveva formulato a voce alta: Ma forse no. Ci avevi pensato? Forse no.

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