“Qualunque crisi può essere letta come un risveglio: un modo nuovo di spendere i soldi, per esempio - invece di rincoglionirsi antropologicamente con gadget edifici viaggi inutili, riscoprire il senso perturbante della carità. Ma per l’uomo-consumista, ibernato da cinquant’anni in un sonno zeppo di sogni consolatori, l’uscita dal rincoglionimento si presenta necessariamente come tragedia. Svegliandosi di soprassalto nel pieno della crisi, è sopraffatto dalla vergogna e dalla paura (mentre lo sfruttato sale sulle barricate, l’indebitato è oppresso dalla colpa); intorno a sé non vede che numeri sempre più impervi, icone che non può raggiungere - e allora si suicida, attenta a se stesso per maledire l’angustia senza nome in cui si è cacciato. “Finanza” deriva etimologicamente da “finire”; l’economia culminata nel casinò globale della finanza e la scienza ridotta a tecnologia ci intridono come una seconda natura, che appunto leopardianamente persegue i propri fini fregandosene di noi. Come non siamo riusciti a federarci contro la prima, così balbetteremo sotto i colpi della seconda; cambiare assume la forma del tradimento contro natura o del salto nel vuoto”.

Così un brano da Exit strategy di Walter Siti. E’ un romanzo, non un’autofiction né un pamphlet contro i tempi oscuri: un romanzo in forma di diario, dove Siti, così come era avvenuto in precedenza (penso, soprattutto, a Il contagio) riesce ad assumere sul proprio corpo lo spirito del tempo, o meglio a giocare con gli specchi e le immagini (una, poi molte, poi tutte) che vi si riflettono. Leggendolo, mi è capitato di pensare che alcuni lo avrebbero definito “moralista”, o portatore di valori normanti, che attentano, attenterebbero alle libertà e ai piaceri individuali. Non è così, credo. Come altre volte, Siti, parla di ossessioni: quelle del suo alter ego letterario, ma anche le nostre. C’è una differenza che dovremmo riscoprire, fra desiderio e ossessione: il primo ci mantiene vivi, la seconda ci rende statici, ci impedisce di vedere quel che c’è dentro e oltre lo specchio (noi, in una parola, come siamo e come potremmo essere). Ci rende, insomma, meno liberi (e a proposito della necessità di risemantizzare: oltre alla parola “morale”, di cui spesso si è detto, è proprio “libertà” che andrebbe di nuovo ripetuta e contestualizzata. Libertà e liberismo non sono affatto la stessa cosa, comunque la pensiate). E comunque, leggetelo.

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