Circa un anno fa, Simonetta Fiori scrisseun articolosulla letteratura del dolore, o per meglio dire sull’editoria del dolore. Dodici mesi dopo, le cose non solo non sono cambiate, ma i titoli si vanno moltiplicando: si tratti di un lutto, una dipendenza, una malattia propria o di un familiare, una disgrazia qualsiasi, e si scrive. Naturalmente, scrivere significa sempre fare i conti con se stessi e con il proprio dolore:  basti pensare ai romanzi di David Grossman (specie l’ultimo, splendido, Caduto fuori dal tempo) e a come il dolore, in questo caso, sia il libro. Ma non tutti sono Grossman, per banale che sia la considerazione, né Joan Didion, né Stephen King. Dipende se dal libro autorivelante si cerca la condivisione letteraria, e dunque il mascheramento, di quella sofferenza, o se si cerca, più sbrigativamente, il passaggio televisivo che diventerà dunque testimonianza e svelamento non dissimile dai tempi del Maurizio Costanzo Show, quando tutti ci si chiedeva, sbigottiti e affascinati, come mai si scegliesse  la telecamera per esibire le viscere. Beniamino Placido se ne occupò più volte da par suo. Per esempio, il 31 dicembre 1992 scriveva:

“La parola è “Schadenfreude”. Tedesca, naturalmente. Accidenti a loro, che la fanno così difficile. Non bastava la “Weltanschauung”, non bastava il “Dasein”, adesso ci voleva anche questa: indispensabile per penetrare - ci assicurano - i segreti di quella cultura. Ma a noi che ce ne importa? Noi vogliamo semplicemente capire la televisione. Appunto, insistono i dotti di Germania. “Schadenfreude” vuol dire gioia maligna. Quel compiacimento ammantato di compunzione che si espande - abbondante - in televisione, di fronte al “caso umano”. Non ce l’ avete anche in Italia? Non ce le avete anche in Italia quelle belle trasmissioni con l’ handicappato? Con l’ handicappato orfano, abbandonato? Con l’ handicappato-abbandonato-drogato? Altroché se ce le abbiamo. Ed abbiamo anche i conduttori televisivi a carico dei quali un sospetto di perverso compiacimento, di gioia maligna, di “Schadenfreude” lo possiamo tranquillamente azzardare. Alberto Castagna con i suoi “Fatti vostri” (RaiDue); Elisabetta Gardini con il suo “Caffè italiano”, la sera su RaiUno; Piero Vigorelli con i suoi efferati casi di cronaca (”Detto tra noi”) il pomeriggio su RaiDue. E qualche volta - perché no? - anche Catherine Spaak: con il suo perbenismo sadico, nel suo “Harem”, su RaiTre. Non si offendano. Non se la prendano. Succede anche in altri campi. Per esempio: si istituisce un Ente per l’ intervento in certe aree depresse. Ci corrono a lavorare persone dotate di convinzione e buona volontà. Vorrebbero seriamente combattere la deprimente depressione di quelle aree. Ma se ci riescono, se quelle aree si scrollano di dosso la malinconia e diventano allegre, finisce anche il loro lavoro. Adesso si devono cercare un altro posto. E’ un caso di “Schadenfreude” interessata, ampiamente studiata dai sociologi”.

E il 3 luglio 1993:

“Questa volta Anna Quindlen si è occupata, per il “New York Times”, della televisione del dolore. C’ è anche negli Stati Uniti, evidentemente. Ed anche lì la si critica aspramente. Stiamo attenti, dice Anna Quindlen. Adesso si fa tanto rumore intorno alla televisione dei “casi umani”, del dolore. Ma una volta era peggio. Una volta il silenzio avvolgeva infiniti “casi umani”, infinite vite dolorose. I giornali non ne parlavano, la televisione non c’ era. E con questo? Dobbiamo prenderla tutta per buona questa televisione dolente: dove i conduttori fingono di commuoversi in studio, e noi fingiamo di commuoverci in salotto? Certo che no. Perché il troppo silenzio di ieri ci rendeva indifferenti. Il troppo rumore di oggi ci rende confusi, intontiti. Ed ugualmente indifferenti, alla fine. Come si fa ad uscire dal dilemma? Si può, se si prende in mano un libro. Ecco Dickens che va a vedere di persona come vivono i bambini negli “slums” della Londra dell’ Ottocento. Li descrive tutti, come capita capita? No, ne descrive uno esemplare: David Copperfield, oppure Oliver Twist. Ma come si dice? “Ab uno disce omnes”. Dal destino di uno ti fa intravvedere il destino di tutti. E non ti crea sazietà. E non ti lascia indifferente”.

La sensazione, e che nessuno si offenda e se la prenda, è che si stia andando più nella direzione della televisione del dolore che in quella di Dickens: soffro e te lo scrivo, e subito dopo, forte del libro, te lo racconto anche in televisione. Però non funziona così: o meglio, funziona, e parecchio, per quanto riguarda le vendite. Non per quello che riguarda la permanenza del libro  in chi legge. Sarà una sensazione, ma la sostituzione dello scrittore con il rivelatore di se stesso può entrare anche nel processo di generale disaffezione alla lettura: perché dopo un mese dimentico, e non sono invogliato a leggere altro. Forse. Non si offendano. Non se la prendano. E, magari, si giovino di  una rapida rilettura di quel che dichiarava Ernst Hemingway, a proposito dell’atteggiamento dello scrittore,  a  The Paris Review

” Se uno scrittore smette di osservare è finito. Però non serve che lo faccia consapevolmente, pensando che potrebbe servirgli. Magari all’inizio è diverso, ma col tempo tutto quello che vede finisce nella grande riserva delle cose che ha osservato o che conosce.

Ammesso che possa interessare a qualcuno, io quando scrivo cerco sempre di seguire il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sott’acqua. Tutto quello che conosco lo posso eliminare, tenere sommerso, così il mio iceberg sarà più solido. Diventerà la parte nascosta. Se però lo scrittore omette qualcosa proprio perché non la conosce, allora si noterà un grande buco nella storia. Il vecchio e il mare avrebbe potuto essere lungo più di mille pagine, avrei potuto sviluppare la storia degli abitanti del villaggio, come si guadagnano il pane, come sono nati, se hanno studiato, avuto figli, ecc. Ma questa è una scelta narrativa che altri scrittori sanno concretizzare in modo eccellente: quando si scrive, il limite consiste in ciò che altri hanno fatto egregiamente. Perciò ho cercato di provare con qualcosa di diverso. Prima di tutto mi sono sforzato di eliminare il superfluo e trasmettere un’esperienza che il lettore potesse percepire come propria, al punto da credere che sia davvero accaduta. È un’operazione difficilissima alla quale ho lavorato molto. Comunque sia, tralasciando i dettagli tecnici, in quel caso ho avuto grande fortuna e sono riuscito a comunicare in tutti i suoi aspetti un’esperienza che nessuno aveva mai raccontato prima. La mia fortuna era propria avere tra le mani un brav’uomo e un bravo ragazzo, quando negli ultimi tempi gli scrittori si erano dimenticati dell’esistenza di personaggi di questo tipo. E oltre agli uomini c’era l’oceano, di cui vale altrettanto la pena di scrivere, quindi sono stato fortunato di nuovo. Conoscevo il modo in cui i marlin si accoppiano, per cui ho lasciato perdere. In quello stesso lembo di mare avevo visto un branco d’una cinquantina di balene, e una volta avevo tentato di arpionarne una lunga quasi novanta metri, ma non ce l’avevo fatta. E così anche questa storia l’avevo messa da parte. In pratica ho lasciato fuori tutti i racconti che sapevo sul villaggio dei pescatori. Cioè la parte sommersa dell’iceberg”.

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