Ieri sera ho partecipato a una lunga discussione nel programma Presi per il web, su Radio Radicale. C’erano Giovanna Cosenza, Anna Paola Concia, Vladimir Luxuria e, in apertura, Alessandra Moretti, deputata Pd, che ha parlato della legge sull’hate speech. Una legge (riassumo, maqui c’è il podcast) non destinata a imbavagliare, ha detto, ma che dovrebbe velocizzare la rimozione dei contenuti offensivi. Alessandra Moretti ha detto anche che i proponenti stanno discutendo con vari interlocutori delle modifiche da apportare. Non ho ben capito quali siano (ho colto solo il riferimento a Save the children), in verità: sulla legge, comunque, si è già discusso mesi fa e si auspicava anche che il progetto fosse rientrato.

Si rischia di diventare noiose, ma a quanto pare neanche ripetendo il concetto decine di volte il medesimo sembra trovare accoglienza. Non abbiamo bisogno di una legge sull’hate speech, così come non abbiamo (avevamo) bisogno di una legge specifica sul femminicidio. L’unica legge di cui abbiamo bisogno (oltre a pretendere l’attuazione di quella già esistente sull’interruzione di gravidanza) è una legge sull’educazione sessuale. Cosa c’entra con l’hate speech? Moltissimo, visto che è negli anni scolastici che si dovrebbe apprendere che l’appartenenza a un genere sessuale non comporta il rientrare negli stereotipi che a quel genere sono attribuiti. Dunque, a evitare di crescere prigionieri dei medesimi. Dunque ancora, questo è l’unico modo serio per far sì che il nostro non resti un paese sessista, e non riversi il sessismo in tutti i luoghi dove esiste parola pubblica, web incluso. Guardiamo all’Europa, allora. In Francia l’educazione sessuale fa parte dei programmi scolastici fin dal 1973: trenta-quaranta ore almeno (quattordici anni fa è stata lanciata anche una campagna sulla contraccezione, cosa da noi impensabile). In Germania sono partiti tre anni prima, e ovviamente non si parla solo di sesso ma di affettività. In Svezia l’inclusione è datata 1956. Ma anche nei paesi dove l’educazione sessuale non è obbligatoria, come l’Inghilterra, ci si muove in modo diverso per quanto riguarda gli stereotipi di genere. Avevo già citato la presa posizione di The Independent, ma credo sia giusto tornarci con ampiezza. Nell’articolo del 16 marzo,  Katy Guest, editor letterario di The Independent on Sunday, ha promesso che giornale e sito non recensiranno libri gender-specific, rivolti esplicitamente a bambine o bambini. Anzi: ogni volume che ammicca a piccole principesse “finirà nella pila dei libri da riciclare”. Un nuovo, eventuale Harry Potter, scrive Guest, non necessita di copertine rosa con i brillantini per avere successo. La decisione del giornale è stata sollecitata da una campagna lanciata da un gruppo di genitori sul web, che mira a far sì che i giocattoli siano solo giocattoli e i libri siano libri, e non strumenti di discriminazione e formazione di stereotipi: sul sito lettoysbetoys,su twitter e soprattutto con una petizione si chiede agli editori per ragazzi di non definire più i destinatari dei libri in base al genere sessuale, sia nel titolo, sia nella copertina, sia nei contenuti. I libri per ragazzi, viene detto, dovrebbero aprire loro nuovi mondi, non chiuderli in una gabbia: “lasciate che decidano da soli quali storie leggere”. L’iniziativa, peraltro, sta ottenendo grandi consensi e non riguarda solo i libri: la catena di supermercati Tesco ha annunciato che rimuoverà le indicazioni “per bambine” e “per bambini” da punti vendita e siti web, e così The Entertainer e altri negozi di giocattoli. La domanda è semplice, a questo punto: è così impossibile replicare l’iniziativa in Italia? La risposta è sì. La seconda domanda è: perché? Una delle risposte possibili è: perché la questione è avvertita come secondaria. Molto più comodo, facile, popolare terrorizzare gli adulti su quel paradiso degli orchi che è (sarebbe) il web (lo stesso dove la comunicazione politica sta toccando livelli minimi) che lavorare per il futuro.

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