Oggi pausa. Parla Stephen King. On Writing.

Gli alcolisti costruiscono difese come gli olandesi costruiscono dighe. Io passai i primi dodici anni della mia vita coniugale assicurando a me stesso che «mi piaceva semplicemente bere». Avevo anche sposato la celebre Difesa Hemingway. Sebbene mai formulata in maniera esplicita (non sarebbe stato virile farlo), la Difesa Hemingway recita pressappoco così: come scrittore, sono una persona molto sensibile, ma sono anche un uomo, e i veri uomini non cedono alla loro sensibilità. Questa è roba da ometti. Pertanto bevo. Come potrei altrimenti affrontare l’ orrore esistenziale e continuare a lavorare? E poi, andiamo, lo reggo bene. Un vero uomo lo regge sempre. Poi, nei primi anni Ottanta, nel Maine entrò in vigore una legge sui vuoti e le lattine riciclabili. Invece di finire nell’ immondizia generica, le mie lattine di Miller Lite da sedici once cominciarono a finire in un contenitore di plastica che tenevamo del box. Un giovedì sera uscii a gettare via qualche cadavere e vidi che il contenitore, svuotato solo il lunedì sera, era quasi pieno. E siccome io ero l’ unico in casa a bere Miller Lite… Cazzo, sono un alcolista, pensai e non udii nella testa nessuna voce che dissentisse: del resto ero quello che aveva scritto Shining senza nemmeno accorgersi (almeno non fino a quella sera) di aver scritto di me stesso. La mia reazione non fu né di rifiuto né di smentita; fu quella che definirei spaventata risolutezza. Allora devi stare attento, ricordo con chiarezza di aver pensato. Perché se toppi… Se avessi toppato, se una sera avessi avuto un incidente d’ automobile o avessi fatto una figuraccia durante un’ intervista in diretta in Tv, qualcuno mi avrebbe detto che dovevo tenere sotto controllo l’ alcol e dire a un alcolizzato di controllarsi è come dire a una persona colpita da un attacco monumentale di dissenteria di controllare le sue evacuazioni. Un amico che c’ era passato prima di me mi racconta una storia divertente sul suo primo tentativo di rientrare in possesso di una vita che velocemente gli scappava via. Andò da un consulente e gli disse che sua moglie era preoccupata perché lui beveva troppo. «Quanto beve?» chiese il consulente. Il mio amico lo guardò incredulo. «Ma tutto!» rispose, come se dovesse essere evidente. So che cosa provava. Sono passati quasi dodici anni dall’ ultima volta che ho bevuto e sono ancora sbigottito quando vedo al ristorante qualcuno che ha vicino alla mano un bicchiere con dentro ancora un dito di vino. Mi viene voglia di alzarmi, andare da lui e gridargli in faccia: «Finiscilo! Perché non lo finisci?». Trovo l’ idea di bere per stare in compagnia risibile: se non ti vuoi ubriacare perché non ti bevi una coca? Durante gli ultimi anni in cui bevevo le mie serate si concludevano sempre con il medesimo rito: versavo nel lavandino tutta la birra ancora rimasta in frigorifero. Se non lo avessi fatto, mi avrebbero parlato quando ero già a letto finché non mi fossi alzato per berne un’ altra. E un’ altra. E una ancora. Nel 1985 avevo aggiunto alla mia dipendenza dall’ alcol quella dalla droga, eppure conservavo una funzionalità marginale, come accade a molti di coloro che abusano di qualche sostanza. Il pensiero che così non fosse mi terrorizzava; ormai non avevo idea di come vivere un’ altra vita. Nascondevo le droghe di cui facevo uso come meglio potevo, sia per terrore - che cosa sarebbe stato di me senza la droga? Avevo scordato il trucco della normalità - sia per la vergogna. Mi stavo pulendo di nuovo il culo con l’ edera del Canada, questa volta su base quotidiana, ma non potevo chiedere aiuto. Non è così che va nella mia famiglia. Nella mia famiglia quello che uno fa è fumare le sue sigarette o ballare nel Jell- O e tenerselo per sé. Ma per la parte di me che scriveva, quella parte profonda che già nel 1975, mentre scrivevo Shining, sapeva che ero un alcolista, non era accettabile. Quella parte di me non conosceva il silenzio. Cominciò a urlare invocando aiuto nel solo modo che sapeva, attraverso le mie creazioni letterarie e attraverso i miei mostri. Tra la fine del 1985 e l’ inizio del 1986 scrissi Misery(un titolo che descrive bene il mio stato d’ animo), la storia di uno scrittore imprigionato e torturato da un’ infermiera psicopatica. Tra la primavera e l’ estate del 1986 scrissi Tommyknocker- Le creature del buio, lavorando spesso fino a mezzanotte con il cuore che correva a centotrenta battiti al minuto e tamponi d’ ovatta infilati nelle narici. Tommyknocker - Le creature del buio è un racconto di fantascienza stile anni Quaranta in cui una donna scopre un’ astronave aliena sepolta. L’ equipaggio è ancora a bordo, non morto bensì ibernato. Gli alieni ti entrano nella testa e cominciano a… be’ , a incasinarti il cervello. Ciò che ottenevi in più erano energia e una forma di intelligenza superficiale (la scrittrice Bobbi Anderson crea tra le altre cose una macchina per scrivere telepatica e uno scaldaacqua atomico). In cambio cedevi l’ anima. Era la migliore metafora sull’ uso di droga e alcol che la mia mente stanca e iperstressata fosse capace di conce pire. Non molto tempo dopo, mia moglie, convintasi infine che da solo non sarei riuscito a sfuggire a quella terrificante spirale discendente, decise di intervenire. Non deve essere stato facile - ormai avevo le orecchie del raziocinio completamente tappate - ma lo fece. Organizzò un comitato di intervento formato da parenti e amici, che mi offrì una versione infernale di This Is Your Life. Tabby cominciò rovesciando per terra un sacco di rifiuti prelevati dal mio studio: lattine di birra, mozziconi di sigarette, fiale di cocaina da un grammo e cocaina in bustine di plastica, cucchiaini sporchi di muco e sangue, Valium, Xanax, flaconi di sciroppo di Robitussin e di NyQuil contro il raffreddore. Persino flaconi di colluttorio: circa un anno prima, notando la velocità con cui scomparivano dal bagno bottiglie intere di Listerine, Tabby mi chiese se lo bevevo. Le risposi con un altezzoso: «Ma figurati!». Infatti non lo bevevo. Bevevo Scope. Era più gustoso, con quella punta di menta. Il punto di quel confronto, che fu certamente spiacevole per mia moglie, i miei figli e i miei amici, quanto lo fu per me, era che stavo morendo di fronte ai loro occhi. Tabby disse che stava a me scegliere: o un centro di riabilitazione, o fuori di casa. Disse che lei e i bambini mi volevano bene e che proprio per questa ragione nessuno di loro voleva assistere al mio suicidio. Trattai, perché è questo che fanno i tossicodipendenti. Fui accattivante, perché è quello che fanno i tossicodipendenti. Alla fine ottenni due settimane per pensarci su. Visto in retrospettiva, mi sembra che riassuma tutta la follia di quel periodo. Un tizio è sul tetto di un edificio in fiamme. Arriva l’ elicottero, si ferma sopra di lui, cala una scala di corda. Arrampicati! grida l’ uomo che si sporge dall’ elicottero. Il tizio sul tetto dell’ edificio in fiamme risponde: Dammi due settimane per pensarci su. Però ci pensai, per quanto era possibile al mio cervello strapazzato, e alla fine a farmi decidere fu Annie Wilkes, l’ infermiera psicopatica di Misery. Annie era la coca, Annie era l’ alcol, e decisi che ero stanco di essere lo schiavo-scrivano di Annie. Temevo di non riuscire più a scrivere se avessi smesso di bere e di drogarmi, ma conclusi (di nuovo, per quanto mi fosse possibile prendere decisioni in quello stato di caotica depressione) che avrei rinunciato a scrivere per conservare il mio matrimonio e veder crescere i bambini. Se a quello bisognava arrivare. (…) Alla fine delle mie avventure bevevo una cassa di lattine da mezzo litro ogni sera e c’ è un romanzo, Cujo, che non ricordo nemmeno di aver scritto. Non lo dico né con orgoglio né con vergogna, solo con un vago senso di infelicità e malinconia. Quel libro mi piace. Rimpiango di non saper ricordare il piacere che ho provato nel mettere sulle pagine le parti belle. Nel momento peggiore non avevo più voglia di bere e non avevo nemmeno più voglia di restare sobrio. Mi sentivo sradicato dalla vita. Nell’ intraprendere i primi passi sulla strada del ritorno cercai solo di credere a tutti quelli che mi dicevano che la situazione sarebbe migliorata se le avessi accordato il tempo di farlo. E non smisi mai di scrivere. Alcune delle cose che mi uscivano erano titubanti e informi, ma almeno c’ erano. Seppellivo nell’ ultimo cassetto della mia scrivania quelle pagine infelici e opache e attaccavo un progetto nuovo. A poco a poco ritrovai il ritmo e successivamente ritrovai la gioia. Tornai alla mia famiglia con gratitudine e al mio lavoro con sollievo: ci ritornai allo stesso modo che si torna al cottage estivo dopo un lungo inverno, controllando per prima cosa che durante la stagione fredda non fosse stato rubato o rotto nulla. Era tutto a posto. C’ ero ancora, tutto intero. Scongelate le tubature e ripristinata la fornitura elettrica, tutto prese a funzionare al meglio.

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