In fisica il lavoro si definisce come la forza che agisce su un oggetto e ne causa lo spostamento. In questa definizione del lavoro ci sono tre parole chiave: la forza, lo spostamento e la causa dello spostamento. In altri termini non è sufficiente, per compiere un lavoro, applicare una forza. Se manca lo spostamento e se lo sposatemento non è causato dall’applicazione di una forza, non si può calcolare il lavoro.

Un esempio pratico: sono alla fermata dell’autobus con le borse della spesa. Il mio braccio, per sostenere le borse, esercita una forza (e si stanca), ma quella forza non produce uno spostamento: quindi non c’è lavoro.

Un altro esempio: voglio spostare una libreria da una parete all’altra della stanza: spingo, tiro, mi impegno e sudo, ma la libreria, piena di tomi dell’enciclopedia, non si sposta di un millimetro: io sono stanchissima, ma non c’è lavoro. Affinché si possa parlare di lavoro, si deve verificare uno spostamento in direzione parallela alla forza applicata.

Difatti la formula per calcolare il lavoro (che si misura in Joule) è il prodotto della forza (che si minura in Newton) e dello spostamento (che si misura in metri).

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Ha fatto molto discutere, in questi giorni, un articolo pubblicato da Repubblica: La busta paga virtuale delle casalinghe.

Per qualche ragione che mi sfugge, molte delle donne hanno recepito questo articolo come un invito ad abbracciare la “carriera di casalinga”.

E’ vero che ad un certo punto si cita Alessia Mosca, capogruppo Pd nella Commissione Politiche Europee, che afferma “anche un reddito minimo per quelle che non hanno un impiego sarebbe un segno di civiltà“, ma se l’ipotesi di “un reddito minimo” è giudicata sufficiente a demotivare le donne ed impedire il loro ingresso nel mondo del lavoro, stiamo messi male, perché significa che un lavoro, oggi come oggi, non garantisce neanche un reddito minimo.

E su questo dovremmo riflettere un po’ di più.

Recentemente archeologi, storici dell’arte, archivisti e restauratori sono scesi in piazza affinché fosse riconosciuta dignità al loro lavoro.

Era stato infatti indetto un concorso che offriva a 500 giovani l’opportunità di “lavorare” nell’opera di digitalitazzione del patrimonio culturale del nostro paese per un compenso di 5.000 euro lordi l’anno. 5.000 euro l’anno, diviso 12 mesi, ci danno una straordinaria paga mensile di circa 400 euro.

Lo slogan della manifestazione era “no ai 500 schiavi”.

Se devo prendere una babysitter per 5 ore al giorno per andare a digitalizzare il patrimonio culturale del nostro bel paese e la pago (sono taccagna) 6 euro l’ora dal lunedì al venerdì, mi costa 150 euro a settimana. In un mese ci sono 4 settimane: fanno 600 euro.

Lascio i bambini alla nonna, perché la baby sitter (o il baby sitter, perché può farlo anche lui…) è fuori questione (con 400 euro al mese di stipendio!); costo della nonna: zero euro.

Ecco come scompare un lavoro: non c’è spostamento di denaro, non c’è lavoro.

L’articolo di Repubblica voleva rendere visibile proprio questo genere di lavoro sommerso: visto che l’unica cosa che sembriamo in grado di percepire al giorno d’oggi è il denaro, visto che tutto ciò che non ha prezzo sembra diventato invisibile e inutile (mi ricordo quando “non ha prezzo!” era un complimento…), è stato attribuito un valore economico a tutti quei lavori che, anche se implicano l’impiego dell’energia di un essere umano (che sia la casalinga, la nonna o la zia), non si trovano riconosciuto lo status di “lavoro”.

Sono lavori che “producono” stanchezza (e tanto altro…), esistono delle persone pagate per svolgere gli stessi compiti (la cuoca, la donna delle pulizie, la badante, la baby-sitter), eppure, quando sono svolti da un familiare, chi li svolge non ha diritto al medesimo rispetto concesso ad una persona che riceve una busta paga.

Come hanno dimostrato le reazioni allo stesso articolo.

Torniamo alla mia premessa: se aspetto l’autobus due ore senza appoggiare le borse della spesa colme di pacchi di sale grosso e fino, di pasta lunga e corta, di detersivo, sapone di marsiglia e scatole di fagioli, anche se non ho “prodotto lavoro” avrò il braccio a pezzi (e forse sono un’idiota, ma è solo un esempio).

Se non date un euro alla nonna che viene a badare ai vostri figli, non per questo la nonna non ha svolto nessun lavoro ed è una “parassita della società”.

Mentre se abbandonate dei minori da soli a casa, siete un genitore negligente.

Potremmo anche riflettere sul fatto che, magari, quella donna che non accetta la meravigliosa opportunità offerta dal concorso per digitalizzare il patrimonio culturale italiano e resta a casa a badare ai suoi figli, una nonna o un marito o una zia che possano aiutarla non ce l’ha… o ce li ha, ma non hanno nessuna intenzione di lavorare gratis col rischio pure di passare per fannulloni che si sono goduti quelle ore mentre i “veri lavoratori” portavano a casa la pagnotta.

Voglio pertanto dichiararmi concorde con quanto scritto da TK nell’articolo “Riconoscere il lavoro delle casalinghe“:

Sinceramente non so quale sia la posizione da prendere rispetto alla formalizzazione del lavoro di casalinga/o, quello che è certo è che qualsiasi considerazione in merito non può passare per la negazione del lavoro svolto dalle casalinghe e del suo peso a livello sociale e sull’economia delle singole famiglie. Il primo passo per scardinare l’impostazione patriarcale per cui il lavoro in casa è vocazione femminile è riconoscere che si tratta, appunto, di lavoro. Per di più duro. – See more at: http://www.massimolizzi.it/2014/01/riconoscere-lavoro-casalinghe.html#sthash.pgwC6oAp.dpuf

Il primo passo per scardinare l’impostazione patriarcale per cui il lavoro in casa è vocazione femminile è riconoscere che si tratta, appunto, di lavoro. Per di più duro.

Ma di questo avevo già parlato:

Il lavoro domestico e l’indipendenza economica

 

p.s. Mia nonna era una casalinga. Il suo motto era “mi riposerò quando sarò morta”. Io le volevo bene e mi manca. E mi fa male leggere certe cose.

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