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Il 10 marzo l’azienda americana Honey Maid, che produce cracker e biscotti di farina integrale e miele, ha lanciato lo spot e la campagna in rete «This is wholesome», con lo hashtag #thisiswholesome (agenzia Droga5). «Questo è sano, salutare» – dice l’azienda – riferendosi ai suoi prodotti, ma anche a una varietà di famiglie contemporanee che non ricadono nello standard della coppia bianca eterosessuale: lo spot mostra infatti un padre single, due padri gay, una famiglia multietnica, una punk-rock.

Nel giro di pochi giorni, oltre alle views (che sono al momento oltre 4 milioni 200 mila) si sono purtroppo moltiplicati gli insulti e i commenti di intolleranza nei confronti delle famiglie rappresentate nello spot. Al che l’azienda e l’agenzia di comunicazione – che evidentemente avevano previsto queste reazioni – hanno chiesto a due artiste di raccogliere i commenti negativi per «farne qualcosa di diverso», ottenendo – come dichiarano nel secondo spot pubblicato ieri – un numero di messaggi positivi «oltre 10 volte superiore». Credo che, al di là del caso specifico, possa nascere da qui una riflessione su come e quanto in rete si possa – a piacimento e con facilità, purché consapevoli di alcuni meccanismi – stimolare «hate speech» come pure, al contrario, «love speech». È interessante infatti che un brand e un’agenzia di comunicazione siano riusciti a prevedere e strumentalizzare la reazione degli haters. Si può fare altrettanto a scopi non commerciali? Si può usare questa consapevolezza per pilotare «love speech» invece di «hate speech» laddove opportuno? Secondo me sì.

Questo articolo è uscito oggi anche su Wired Italia.

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