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Piera, lettrice di questo blog, mi ha mandato un testo di suo figlio Giacomo, 17 anni, che frequenta un istituto alberghiero. Da qualche mese pare che il ragazzo sia cambiato molto: è d’improvviso diventato un lettore vorace e ha pure cominciato a scrivere, il che lo sta aiutando a uscire dell’adolescenza. Ho deciso di pubblicare lo scritto di Giacomo perché esprime molto bene non solo i vissuti di un singolo, ma lo spleen tipico degli anni di scuola, in cui il tempo sembra non passare mai. Incredibile come da 17 a 18 anni il mondo si capovolga: non c’è studente/ssa universitario/a che non lamenti, fin da matricola, la mancanza di tempo, la frenesia e le continue corse a cui la nuova vita lo/a costringe.

Era una mattina come tante, la frigida monotonia di sempre, solita stanchezza, solito bruciore agli occhi, solite persone, stessi sguardi vaghi, persi nel nulla, mentre il fiato prendeva forma in una nuvola faticata, insomma sempre la stessa storia. 
Era lo stesso da tre anni, ormai: l’inevitabile via vai di scale, saluti a metà strada senza sentimento, finiti sorrisi e infine, per fortuna, c’erano le croccantelle, per dare quel poco di gioia al mio palato, se di gioia si può parlare.

Era lo stesso da tre anni, i muri di quel solito colore sfiancante, giallastro, quel giallastro che non troveresti in nessuna sfumatura del buon gusto, mentre fuori il tempo anneriva sempre di più e si preannunciava pioggia, lo si odorava nell’aria. 
Non era un giorno particolare, non mi sentivo né particolarmente entusiasta, né particolarmente angosciato, neutrale non rende al meglio quello che era il mio stato d’animo, direi piuttosto… indifferente, esatto: indifferente.

Presi posto nell’aula, il prof era già seduto alla cattedra, più in anticipo del battere della lancetta sul secondo che spacca il minuto, era lì che sprizzava una vitalità a me sconosciuta a quell’ora, io che mi trovavo ancora immerso nel mondo dei sogni e a fatica percepivo la realtà, la toccavo ogni tanto, ma dopo un po’ mi ritrovavo a naufragare tra un sogno e l’altro, sguazzando beatamente qua e là, tra sogni erotici e colline sporgenti, tra stile libero e dorso. Finché, come il frastornante, fragoroso vibrare di una sveglia, con voce pavida ma decisa, il prof chiese: “Longobardi, la giustifica?”.

“Cazzo”, pensai. 
Un po’ scocciato mi alzai, lentamente, caricai sulla spalla destra lo zaino, attesi la fine dell’appello per raccattare il registro e, infine, uscii di classe. Era il quarto giorno che non giustificavo, la segretaria mi aspettava come Giulietta aspetta Romeo, come il ghepardo brama la sua gazzella, insomma, mi preparavo alla solita ramanzina sui ritardi, le giustificazioni e quel che di più noioso c’è al mondo ma, ahimè, c’è anche quello.
 Il tempo era lento in quella stanza stretta, rimbalzava da parete a parete, senza mai preoccuparsi di uscire, rimbalzava lentamente, come fosse molle, e ogni tanto si spiaccicava sul muro, prendeva fiato e ripartiva, come quelle esili gocce che abbracciavano i vetri delle finestre, per poi unirsi a qualcosa di più grande. Pensai: ”Forse sono come quella goccia”. 
Conclusa la firma, la vicepreside mi riportò alla realtà, la mia vita da studente, facendomi abbandonare la fantasia da goccia. Da piccolo mi capitava di tanto in tanto, mi chiedevo ”Ma se fossi nato libro? Se fossi nato albero? Chissà?…”

Finalmente ero pronto ad appoggiare le mie chiappe sulla sedia, pronto a passare ore tra ascoltare i prof e leggere, guardare fuori dalla finestra e stendermi sul banco rassegnato… quindi avvicinai lo zaino, tirai fuori il romanzo che mi fa compagnia da mesi, e ripresi a leggerlo.
 È suppergiù da tre o quattro mesi che ho cominciato ad appassionarmi alla lettura: quel giorno lessi Pennac, lessi Fo, quello stesso giorno presi un libro di Freud e uno di Fromm, addirittura cominciai a comprarne, di libri, insomma leggere è rilassante e cosa volete di più? Allora i miei occhi facevano slalom tra le parole fitte del mio romanzo, “Nel segno della pecora’”, mentre io, assorto nella lettura, immaginavo di essere il protagonista e un po’ mi ci rispecchiavo, un uomo annoiato, sofferente, indifferente. E alla fine di quella mattina, una mattina come tante, 
scostai gli occhi per leggere l’ora dal cellulare: era passato solo un minuto, lentissimo. Il prof della prima ora aveva appena cominciato a parlare.

Archiviato in:così va il mondo, scrittura Tagged: così va il mondo, La persistenza della memoria, Salvador Dalì, scrittura

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