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Da mesi le chiacchiere mediatiche sul turpiloquio, l’aggressività verbale e il cosiddetto hate speech si sprecano. Di solito lo sciocchezzaio più frequentato addossa le colpe a Internet, al Web, a Facebook. Come se la rete favorisse il “linguaggio dell’odio”, lo rendesse più facile (perché l’aggressore si nasconde dietro l’anonimato) e lo rendesse più pesante (perché se non guardi in faccia la tua vittima, è più facile colpirla). Casca a fagiolo l’episodio che mi ha raccontato Lucia (nome inventato), 22 anni, terzo anno di Scienze della comunicazione. Dopo aver assistito a una lezione in cui sottoponevo ai ragazzi i problemi del divario digitale in Italia, collegandoli (anche) alla demonizzazione di Internet che molta pseudocultura benpensante alimenta quasi ogni giorno, se ne entra nel mio studio con questa storia.

«Pensavo alle cose che ha detto a lezione, prof», esordisce deglutendo. «Cioè?» «La questione dell’odio in rete.» «Ahà?» «Per me un insulto in rete non è per niente peggiore di uno in faccia, prof. Anzi il contrario: fa più male un insulto in faccia. Molto più male, ne sono certa.» «Perché dici questo?» «Le racconto una cosa che mi è successa sabato. Non ci ho dormito la notte, sa, e quando lei ha detto quelle cose a lezione, mi ha fatto clic la testa.» «Dimmi.» «Ero in fila con due amiche per entrare al Sarabanda [nome inventato].» «Ehi ma andate ancora al Sarabanda? Nel 2014? C’è da una vita.» «Lo so prof, va molto anche ora. Vabbe’, a dire il vero non ci vado quasi mai, ma due salti… ogni tanto…» «Certo, facevo per dire. Continua.» «E insomma, ho visto una scena che non mi è andata giù. Ci sono rimasta di merda, prof. È da sabato che ci penso.» «Spara.» Mi pianta gli occhi scuri dritti in faccia e comincia a torturare i numerosi peircing che abitano i lobi delle sue orecchie. «Ero in fila, dicevo. Nella fila ordinaria, sa, perché non eravamo in nessuna lista. E nemmeno siamo fichissime, biondissime e magrissime, tipo quelle che conoscono tutti, salutano tutti e quando arrivano le fanno entrare subito.» «Certo, siete molto più belle voi.» «Eh, magari prof! Troppo gentile a dire questo, ma non è vero, lasci perdere.» «Allora?» «Allora succede che appena davanti a me, nella fila ordinaria, ci sono due ragazze: non le classiche belle, ma nemmeno brutte, dai, e poi sono vestite bene, adatte alla situazione. Diciamo che sono un pelino rotonde, un po’ più in carne delle biondissime e magrissime che entrano senza fare la fila. E non stanno nella pelle: ridono, saltellano, battono le mani. Insopportabili. Mi arrivano parole isolate: “Inzaghi… fichissimo… Craig David… attori…”. Facile immaginare i discorsi. A un certo punto si apre una vetrata, ha presente prof? Una di quelle laterali, accanto all’ingresso.» «Ho presente.» «Dal buio escono tre tipi gesticolanti. Bellocci ma niente di che. Però se la tirano una cifra, questo è chiaro. Tutti e tre in stile milanese, ha presente? Con la camicia tirata, la scarpa giusta, l’aria stronza quanto basta. Escono per fumarsi una paglia, e più che parlare urlano. E ti credo: se ti abitui al casino che c’è dentro, ci metti un po’ a tornare normale. I tre figarini passano di fianco alle ragazze, quelle tacciono di botto e si girano a guardarli. Anche i tre le guardano…» Lucia si interrompe, le cala un velo di tristezza sugli occhi. «Beh? Cosa è successo?» «Uno dei tre si stacca dagli altri e si avvicina a una delle ragazze, gli va proprio vicino, prof, talmente vicino che sembra quasi voglia baciarla. Per due secondi la guarda muto e poi d’un botto grida: «Uh, ma che cessa!» In faccia, prof, glielo urla proprio a due centimetri dal naso. Poi corre dagli amici e i tre si allontanano a fumare sghignazzando. Erano orribili, prof. Schifosi.» «Immagino, Lucia. Ci credo che ci sei rimasta male. E le ragazze?» «Le due restano impietrite. Mute. Per un po’ tutta la fila smette di parlare, tutti a guardare in basso. A me casca pure la paglia di bocca, da quanto ci resto di merda. Davvero prof, mi è venuta l’angoscia per lei.» «Ma la ragazza? Non ha reagito? Non ha detto nulla la ragazza?» «Macché anzi, c’è di peggio. Dopo due secondi la tipa si mette a piangere… accidenti, con lacrimoni grossi così. Merda, ci voleva anche questa… Per uno stronzo del genere. Al che la gente intorno riprende a parlare come se niente fosse, mentre la tipa piange sempre più forte e l’amica le mette un braccio intorno al collo per consolarla, ma si vede benissimo che pure lei dovrebbe essere consolata. Io mi accendo un’altra paglia giusto per darmi un tono, perché mi sento male, mi sento proprio male per lei. E mentre penso di dirle qualcosa ma non mi vengono le parole, accade il peggio del peggio…» «Ancora peggio?» «Certo, prof. Perché alla fine una tipa si avvicina a quella che piange e le fa: “Dai, non prendertela, capita a tutti… Vedi che è normale qui!” Normale, prof, ha capito? Normale. Una esce con le amiche al sabato ed è normale che arriva uno e ti urla in faccia, di punto in bianco, che sei una cessa. Normale.» Mi fissa sgranando gli occhi scuri, le manca quasi il fiato. Si sta quasi staccando il lobo di un orecchio. Ripenso alle discoteche di quando andavo a scuola, era normale allora? Era normale sì, anche allora lo era. «Be’ Lucia, in effetti, in certi ambienti… se basi tutto sull’apparenza fisica… finisce per essere normale sì, quella ragazza in fondo ha ragione.» «Ecco infatti, ci siamo abituati, lo diamo per scontato. Noi donne per prime, eh. Però pensavo questo prof: se te lo dicono su Facebook, che sei una cessa, be’, non può mai essere così schifoso, così duro, così umiliante come ha fatto lo stronzo sabato sera. Per me quella ragazza se lo ricorderà finché campa. E pure io me lo ricorderò.» «Già, ma voi? Che avete fatto voi?» «Abbiamo fatto marcia indietro prof, alla fine non siamo entrate. E vaffanculo il sabato sera.»

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