Riguardo la mia bacheca Facebook di questi giorni (era più comodo e facile scrivere un breve status ogni tanto: cinque giorni di febbre non aiutano a concepire un post) e mi rendo conto di quanto ci stiamo abituando a macinare idee, commenti, fatti. La morte solitaria di una grande donna come Carla Ravaioli (e i suoi libri? Perché non si trovano più i suoi scritti sulle donne? E perché faccio domande retoriche?). La campagna virale del momento sui creativi non pagati (e gli altri? Vengono pagati sempre? Sono meno degni di attenzione, gli altri schiavi trepuntozero?). La manifestazione dell’8 febbraio contro la Fini-Giovanardi (qui il linklo metto). Il Lettore Zero, gli articoli sul perché non si legge, quelli che si arrabbiano quando gli scrittori pubblicati fanno notare che i libri sono troppi, quelli che si arrabbiano a prescindere, quelli che dicono l’editoria è morta. Fresca fresca, la classifica di Usa Today dei 100 libri più venduti negli Stati Uniti, su carta o ereader, dove non appare (ma guarda!) neanche un titolo self-published. Flussi di parole di cui spesso resta molto poco, e cui pure non ci si sottrae. Quando si è costretti a fermarsi per qualche giorno, commentarium, si comincia a nutrire il desiderio di modi diversi di usarle, quelle parole. Non necessariamente più utili, ma diversi. Anche perché, come dice un mio saggio amico, a forza di eliminare la verticalità in favore dell’orizzontalità si sceglie una strada che potrebbe essere senza ritorno, o almeno non nell’immediato. Detto questo, ben ritrovati, grazie per la pazienza, a lunedì.

Ps. Per romani e curiosi: domani alle 18.30 presento Pupa a Fandango Incontri (via dei Prefetti 22), con un bel drappello di amici: Lidia Ravera, Gianfranco Calligarich, Massimo De Nardo e Giovanni Anversa. Se passate, ne sarò felice.

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