Guido Ceronetti interviene oggi, come si suol dire a gamba tesa e col probabile intento di suscitare il dibattitone di fine anno, sulla prima pagina di Repubblica. Interviene, buon ultimo, chiedendo di sostituire la parola femminicidio con ginecidio, anche se nella seconda riga chi legge ha sperato di trovare l’auspicio per l’eliminazione del gesto, e non della parola. Ma andiamo con ordine, e cominciamo  dall’articolo:

Il mio contributo alla giornata salvadonne è tardivo, ma capitale. Si tratta di eliminare l’orripilante femminicidio, che le abbassa a tutto ciò che, in natura, è di genere femminile, dunque zoologico, col destino comune di figliare e allattare. Ma, per noi, se non siamo bruti, donna significa molto di più. L’etimologia latina ne restringe il ruolo allo spazio domestico (domina); il Medioevo occidentale l’ha inventata (o rivelata) ideale, e su quel trono è rimasta, anche quando trattata a frustate. Sopprimiamo femminicidio e facciamogli subentrare da subito ginecidio. Non è un neologismo bellissimo, ma appartiene alla schiera dei derivati dal greco classico (giné-gynekòs) che suonano in italiano benissimo: gineceo, ginecologia, ginecofobia, misoginia, ginecomanía, ginandria… Non pensavo mi toccasse di proporre il termine più accettabile per una cosa tanto ripugnante. Però femminicidio va sbattuto fuori dal linguaggio, se ci sarò riuscito me ne farò un minimerito. Nessun pericolo viene dal misogino. Le donne non hanno niente da temere. Misogini furono Euripide, Schopenhauer, l’autore biblico Qohélet, Leopardi, in genere quasi tutti i poeti e i filosofi, che mai si macchiarono di ginecidio, e delle donne, per troppo amore, per lo più furono vittime innocenti. Schopenhauer, in vecchiaia, in un colloquio disse: — Mah… sulle donne non ho detto l’ultima parola… — Bisognerebbe indovinarla, perché quell’anima di profondità morì prima di averla detta. Spinoza, mani immacolate, patì il morso della gelosia per la figlia del suo maestro di latino, che gli preferì un altro allievo padre, e lui si rassegnò ad una solitudine senza sgarro, dove lo raggiunse anche la maledizione della sinagoga, chiudendosi nella gloria di un Dio che vide ben da vicino, ma impossibile da amare, inaccessibile a qualsiasi preghiera. Il capolavoro della misoginia italiana è il trattato “Se s’abbia a prender moglie” di Giovanni Della Casa, che si limita a sconsigliare implacabilmente ai giovani celibi il matrimonio, a causa della sfrenata libidine delle mogli, ma considera la sua messa in guardia una quaestio lepidissima, e si guarda bene dal risvegliare nella vittima mascolina l’istinto ginecida. A più riflessione può indurre invece l’opinione di Nikola Tesla, figura delle più affascinanti, inventore della corrente alternata e profeta ispirato delle guerre future (in America è ritenuto il vero inventore della radio). Nel 1924, quasi settantenne, Tesla pensava che la più grande tragedia del nostro tempo fosse l’avvento del potere femminile, un combattimento escatologico delle donne contro l’uomo per subentrargli nel lavoro e nelle professioni, quindi capovolgendo i ruoli nella famiglia, buon motivo per lui di stare alla larga. (Avesse mai immaginato Thatcher, Golda, Indira, Hillary!). La riscossa maschile che vediamo è da specie degenerata: la coltellata, gli spari, lo stupro in branco, già in età precoce, per cura preventiva. Qui divergo dalle compunte proposte di rimedi culturali, scolastici, educativi — scappatoie per paura di applicare misure implacabilmente repressive. Una comunità senz’anima, né patriarcale né matriarcale, al bivio di Buridano, non può rispondere che debolmente a questo autentico attacco alla specie umana. Preferiamo esporre le ragazzine, piuttosto che terrificare i colpevoli. Caro, adorabile genio solitario di Nikola Tesla! Le sue lunghe strane mani di extraterrestre (tale fu creduto da chi lo conobbe) mai si sarebbero macchiate di un qualsiasi atto malvagio! Ma vorrei fargli, nella sua stanza celibataria dove visse senza dimora fissa, al Waldorf Astoria, questa domanda: — C’è un diritto prestabilito fra tutte le leggi della realtà patriarcale che valga la trasgressione di Antigone? Se ci manca (e in verità ci manca) il lamento, la cura rituale di Antigone, scenderemo davvero placati tra i morti? E se qualcosa di lei ancora ci venisse incontro nei deserti manageriali e professionali, non sarà da benedire questa usurpazione? — Antigone, sorella di tutti i morti e di tutti i malvivi, la figlia di tutti i ciechi Edipi. La vista di una donna che singhiozza su un corpo morto, nelle grandi catastrofi naturali e nelle stragi politiche, consola: quel morto non è solo, non è consegnato senza compianto alla Macchina Sociale, alla purificazione crematoriale. Violentare, sfregiare, uccidere una donna è lo stesso che uccidere l’eterna legge trasgressiva di Antigone, quella dell’amore, perdutamente ed esclusivamente scritta sugli astri.

Non stupisce che Guido Ceronetti ignorila storia del termine femminicidio, ed è ovviamente suo diritto invocarne l’abolizione anziché chiedersi davvero, con la cultura e l’autorevolezza a sua disposizione, e utilizzando il ragguardevole spazio che gli viene concesso, per quale motivo l’uccisione delle donne sia ancora la cancrena di un tessuto sociale, perché è il delitto che resta invariato da anni, mentre gli altri crimini diminuiscono. Non stupisce perché il senso dell’articolo è, neanche troppo fra le righe, l’orgogliosa rivendicazione della misoginia: non parla forse e soprattutto di uomini che di donne furono vittime? E certamente ce ne sono stati, perché negare la crudeltà femminile è imbecille e pericoloso: ma i poveretti citati, i poeti e inventori e artisti che dalle donne furono, secondo Ceronetti, angariati, rimasero vivi. Contrapporgli l’elenco delle donne che persero la vita per “troppo amore”, per essere state poste su quel trono che è molto più scomodo e doloroso di quello di spade inventato da George R.R. Martin - uno scrittore che probabilmente Ceronetti non conosce -  è esercizio inutile.  Perché quel che a Ceronetti interessa davvero è che un sistema culturale non venga toccato: non lo dice, forse? Non definisce sbrigativamente “compunte” le proposte di mutamento culturale ed educativo, quasi venissero da vecchie beghine odorose di incensi politicamente corretti? Reprimiamo gli assassini e ci togliamo il problema. Purtroppo quel problema non si elimina punendo. Si elimina facendo piazza pulita dei troni, degli altari, e della divinizzazione del femminile. Si elimina riconoscendo al femminile la stessa dignità e gli stessi diritti del maschile. Si elimina ammettendo che la nostra cultura è fondata sulla fascinazione per la bella ammazzata: legga, Ceronetti, La morte ci fa belledi Francesca Serra, per capire come la morte di una donna sia  “il mito fondativo della nostra cultura”. Il che, occorre ripeterlo, non significa smettere di deliziarci con Euripide e Millais: ma capire, inquadrare, contestualizzare. Esattamente come facciamo leggendo del cadavere di Ettore trascinato nella polvere. Antigone, che viene citata quasi esclusivamente come donatrice di “cura” e di amore, e non come portatrice di un sistema sociale diverso da quello del potere, è infatti una donna morta ammazzata. Sarebbe stato bello trovare, nelle parole di Ceronetti, donne che hanno vissuto la propria vita senza che altri la interrompessero come punto di riferimento. Ma è molto difficile che il mito ce le consegni. E, viceversa, sarebbe fin troppo semplice opporre ai Tesla, agli Spinoza e agli altri infelici che per le donne patirono, le Plath e le Sexton e tutte coloro che “non erano ciò che credevano” e che per questo infilarono la testa nel forno o a chiudersi in un garage saturo di gas con una bicchiere di vodka in mano.  Questa non è una guerra di citazioni. Non è neppure una guerra di etimologie. Questa non è una guerra: è, o dovrebbe essere, un momento di condivisione, per camminare con passi diversi, le donne e gli uomini, lasciando i troni al passato e al suo racconto. Non credo, però, che quel cammino interessi davvero all’autorevole misogino: ed è un peccato, sul serio.

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