C’è un quadro di Edvard Munch che si chiama Giardino con casa rossa.  Munch lo dipinse a 21 anni, nel 1882, e non sembra esserci traccia dei lutti che portava nel cuore, della malattia e della morte della madre e della sorella Sophie che saranno lo straziato soggetto di altri quadri. Qui c’è semplicemente un giardino incolto e verde, con le erbacce che fanno da sfondo a quelle che sembrano cianfrusaglie abbandonate, come spesso avviene in campagna.  Un vecchio tavolino. Una panca di legno. Anche la casa è sbilenca, e polveroso è il cielo che la sovrasta. A Genova, sono riuscita a vedere la mostra di Munch a Palazzo Ducale e mi sono fermata a lungo davanti al piccolo quadro, che è uno dei primi del percorso. Mi ha colpito perché apparentemente è un’opera dimessa, non ha nulla delle angosce e delle innovazioni delle sue madonne e dei suoi vampiri e delle sue peccatrici. Eppure, in quel non esibire quasi nulla, dice tutto. Ora, il salto da Munch all’eroismo, e al magnifico saggio sugli eroi letterari di Stefano Jossa, può sembrare ardito. Jossa è un critico e storico della letteratura, insegna a Londra, ha scritto per Laterza Un paese senza eroi, L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano. Tra le citazioni di apertura c’è una frase da La pestedi Camus: “Ma lei sa, io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”.  Una frase che, a ben leggerla, illumina l’intero saggio: che sostiene, in breve, che mentre in altri paesi gli eroi letterari sono divenuti eroi nazionali, e comunque rappresentativi del carattere di una nazione (Robin Hood, Wilhelm Tell, D’Artagnan), in Italia questo non è accaduto. Ed è, a suo parere, un bene. Scrive Jossa:

“Questo è un libro a tesi. La prima tesi è che gli eroi non fanno bene alla politica. È famosa e citatissima la battuta di Galileo nella Vita diGalileo di Brecht, «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», in risposta ad Andrea, che aveva osservato «Sventurata la terra che non ha eroi». Il rifiuto del modello eroico da parte di Galileo nasce dalla convinzione che gli eroi siano una finzione, una costruzione letteraria: «La natura non potrebbe fare un caval­lo grande per venti cavalli, né un gigante dieci volte più alto di un uomo, se non o miracolosamente o con l’alte­rar assai le proporzioni delle membra e in particolare dell’ossa, ingrossandole molto e molto sopra la simme­tria dell’ossa comuni».  Il Galileo di Brecht sa che la natura non prevede l’esistenza degli eroi: dove si lavora con passione e fiducia per la verità, non c’è bisogno di simboli da seguire e bandiere con cui identificarsi. Il modello che fornisce un esempio vale infinitamente di più dell’eroe da mitizzare e idolatrare: la terra che ha eroi ha costruito una cultura populista, in cui la massa s’identifica con un’astrazione impersonata dal simbolo eroico, mentre la terra che non ha bisogno di eroi privilegia l’etica dell’impegno e della partecipazione.

«Eroe» è parola che ricorre continuamente sulle pagine dei giornali, nel discorso pubblico, nella retorica politica e nell’immaginario mediatico in Italia: sono stati «eroi», negli ultimi venti anni, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Marco Biagi, i caduti di Nassiriya, Nicola Calipari, persino Vittorio Mangano. I casi sono diversissimi, da omaggi più che giusti ad aberrazioni propagandistiche, ma tutti esprimono una fondamentale difficoltà a confrontarsi con l’esperienza umana: spossessati di quella che è la loro vera vita, gli eroi diventano un’astrazione, dei simboli, portatori di valori e ideali che non si radicano nella realtà sociale e culturale della nazione. Il bisogno di eroi rivela una cultura politica debole, pre-razionale, che predilige l’aspetto emotivo sulla coscienza civile. Gli eroi sono spesso tratti dalla storia, ma diventano una costruzione letteraria, un racconto, nel momento in cui assurgono allo statuto di eroi: diventano personaggi di una fiction. Visto che l’Italia, paese spesso considerato con poca cultura politica e molte istanze pre-razionali, di eroi reali sembra averne tantissimi, mentre di eroe letterari, a differenza di altri paesi moderni, non ne ha, si potrà pensare che proprio la letteratura, che tanto ha contribuito alla fondazione della nazione e alla costruzione del suo carattere, abbia fornito una zona di resistenza, aristocratica, al populismo degli eroi nazionali?

La seconda tesi del libro sarà proprio che i personaggi più famosi della letteratura italiana tra Otto e Novecento abbiano una dose di realismo e individualismo che ne ha impedito la modellizzazione simbolica. Troppo ricchi di personalità, ma al tempo stesso sfumati e problematici, i grandi personaggi letterari del romanzo italiano, da Jacopo Ortis al Partigiano Johnny, da Pinocchio a Montalbano, non sono diventati dei Robin Hood o dei Wilhelm Tell perché hanno resistito a ogni tentativo di strumentalizzazione e svuotamento: candidati tutti, più o meno esplicitamente, con maggiore o minore consapevolezza dei loro autori, a interpretare un ruolo di modello e guida per un’intera comunità, essi hanno finito per proporre chiavi di riflessione etica e politica piuttosto che venire monumentalizzati e simbolizzati.

La terza tesi è che i personaggi sono uno dei motivi per cui c’interessiamo e appassioniamo alla letteratura. Tutt’altro che morti, come si voleva cinquant’anni fa, i personaggi sono più vivi che mai e ritornano a popolare il nostro immaginario soprattutto nella forma degli eroi e dei supereroi, perché essi sono, come ha scritto Enrico Testa, «il luogo di un commento e di un’interpretazione della vita reale che si realizza producendo una vita possibile: con i tasselli del concreto, insomma, un mosaico della finzione in cui a prevalere è l’intentio cognitiva su quella imitativa». Il personaggio, infatti, è per sua natura non vero, quindi fittizio, ma è al tempo stesso possibile, quindi reale: sta sul confine tra ciò che il lettore non conosce ancora e ciò che il lettore potrebbe essere. Il primo aspetto lo rende ignoto, invece il secondo ne fa una potenzialità che è già contenuta dal lettore, che può pertanto identificarsi oppure no. Il personaggio, insomma, è il più grande contenitore di universalità, perché in teoria chiunque potrebbe riconoscersi in lui, ma al tempo stesso è il massimo dell’individualità, perché nessuno è e sarà mai come lui. In questo senso il personaggio è il contrario dell’eroe, perché il primo invita a distinguere attraverso il confronto, mentre il secondo prolunga l’identificazione e allontana il distacco. Se voglio essere come il mio eroe, in qualsiasi campo, sia esso mio padre, Napoleone, Garibaldi, Lincoln, De Gaulle, Ghandi, Martin Luther King, Marylin Monroe, Lady Gaga, Nadal o Cristiano Ronaldo, non sarò mai me stesso: potrò al massimo essere un’ottima copia. Qui è tutta la distanza tra le ideologie, populiste e reazionarie, dell’eroismo e quelle, progressiste e rivoluzionarie, dell’esempio: da un lato s’incoraggiano passività e disimpegno, affidando spesso all’eroe una funzione salvifica di tipo religioso, come se la sua sola esistenza bastasse a superare i problemi, dall’altro si promuovono responsabilità e partecipazione, nella consapevolezza che i risultati si raggiungono attraverso un’etica pubblica e una cultura politica fondate sullo scambio, la condivisione e il confronto. Se rinascesse Falcone mi sentirei rassicurato nei confronti della mafia e affiderei a lui la lotta, lavandomene le mani e ritirandomi nel mio privato: invece di mafia bisogna continuare a parlare, perché la si conosca e capisca e un nuovo Falcone non si senta disperatamente isolato e velleitario.

La quarta tesi è che la letteratura è strettamente legata alla filosofia e alla politica. Dopo anni di primati formalisti e filologici è arrivato il momento di tornare a parlare, con termini spaventosi solo per chi non è in grado di usarli, di contenuti e ideologie. Nessuna opposizione, naturalmente, tra forme e contenuti, dato che non ci sono contenuti preesistenti alla o indipendenti dalla loro formalizzazione; ma un bisogno di riconoscere il primato delle idee (nelle loro relazioni con i valori, le storie e le persone) sulle tecniche. Nessuna dichiarazione di appartenenza teorica, dunque, ma un dialogo costante con tutte le teorie, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicologia all’antropologia, dalla stilistica ai cultural, visual e reception studies: nel labirinto dell’immaginario contemporaneo bisognerà esercitare una funzione critica, ricostruendo fili e tracciando mappe con obiettivi cognitivi e politici. Solo così gli studi letterari potranno evitare di perdersi nei rivoli di un’erudizione fine a se stessa e tornare ai motivi più autentici che hanno portato la maggior parte degli addetti ai lavori a scegliere questo lavoro: l’amore per le storie e i personaggi, fatti d’intrecci e di parole, ovvero finti in mezzo a noi.”

E’ un libro importante quanto, fin qui, passato quasi sotto silenzio. Perché va a smontare parecchie aspirazioni muscolari a un eroe purchessia, e ad affermare che i nostri non-eroi sono efficacissimi anticorpi a quelle aspirazioni. Che un giardino con casa rossa può colpire al cuore più di un urlo, anche se il secondo è più famoso. Leggetelo, e diffondetelo.

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