Una traduzione da “My bones are breaking from the weight of the world

imageCultura dello stupro è quando avevo sei anni  e mio fratello mi ha fatto saltare i due denti davati. Invece di rimproverarlo, mia madre ha detto “Stefanie, che cosa hai fatto per provocarlo?” L’unica frase in mia difesa è stata: “Tesoro, ignoralo. Non lo innervosire. Aspetta solo una tua reazione.” Come se fosse il mio unico scopo, la ragione del mio esistere, bambina di 6 anni, fosse non irritare mio fratello. Tutto comincia quando abbiamo sei anni e cresciamo con l’idea che è naturale per un uomo essere un predatore, e bisogna camminare sempre sulle uova per “non irritarlo.” Vero mamma?

Cultura dello stupro è quando durante una conversazione a cena, mio padre dice che le donne stuprate se la vanno a cercare. Lui dice: “Le vedo per le strade di New York City, con le loro gonne corte, tutte truccate. Vogliono essere stuprate”. Ero la cocca di papà, eppure lui penserà che me la sono andata a cercare? (lo penserà) Riuscirà a pensare che me lo meritavo? Mi riterrà responsabile o mi abbraccerà, anche se solo il contatto con un uomo  – soprattutto quello di mio padre – brucerà come se avessi il sole nel palmo della mia mano?

Cultura dello stupro è quando provi così tanta  vergogna, che pensi che sarebbe più facile morire che dire  “Hey, mamma, papà”, non è stata colpa mia. Non me la sono andata a cercare. Non ho mai voluto che succedesse, non ho mai chiesto di essere un obiettivo, di essere debole solo perché sono nata con due cromosomi X, di camminare guardandomi attorno con paura, non ho mai chiesto di essere una preda. Non ho mai voluto una vita spesa ad essere qualcosa di cui cibarsi, un banchetto per chi è eternamente affamato. Non voglio più sentir parlare del mio sapore. Non lascerò che mi mangino viva.

Cultura dello stupro è quando avrei fatto meglio a non difendere la mia amica perché un ragazzo aggressivo della confraternita le aveva messo una mano sul culo, perché difendere il suo corpo ha reso il mio corpo un bersaglio. Le donne hanno paura di parlare, perché temono per la propria vita – ma preferisco essere colpita che accettare di vivere in silenzio. Mi hanno detto che sarò sempre una vittima, che ce l’ho nel DNA, il mio destino è scritto nel mio debole, morbido corpo. Ho fianchi adatti al parto, non una postura da combattente. Sono geneticamente predisposta a perdere, sempre e comunque.

Cultura dello stupro è “povero, probabilmente sarà stato abusato da bambino.” Lui ha sempre una qualche forma di una giustificazione mentre tutto quello che ho io sono le cose che lo hanno provocato e le cicatrici che mi ha lasciato ben nascoste sottopelle.

La cultura dello stupro è trovare dei pezzi di lui dentro mi me. Un osso del gomito. Il suo ginocchio. E’ così scoraggiante sapere che ci vorranno anni perché lo estragga piano piano, con metodo, dal mio corpo. E quel dolore acuto al braccio quindici anni dopo? La prova di ciò che è successo. Come un tatuaggio che non volevo. In qualche modo sono stata segnata, in modo permanente.

Cultura dello stupro è non riuscire più ad indossare quel vestito senza sentirmi sporca, senza pensare che in qualche modo me lo sono meritato. E sentire di camminare sui coltelli, ogni volta che ho addosso le scarpe con le quali gli ho fracassato il naso. Immagino il sangue sui miei talloni, penso “forse questo mi guarirà”. Quelle scarpe sono la libertà, ma anche i resti di una lunga battaglia. Ho sempre il mio cuore, la mia passione, la mia voglia di vivere, ma anche la vergogna e il senso di colpa e il dolore.

Mi sono salvata, ma mi sento ancora come se stessi camminando sui coltelli.

Cultura dello stupro è “Stefanie, non sei stata veramente violentata, sei stata fortunata “ Perché il mio corpo non è stato penetrato da un pene ma dalle dita, è per questo che dovrei sentirmi  fortunata. Dovrei mettermi in ginocchio e ringraziare. Grazie per essere stato così gentile.

Cultura dello stupro è “le cose sarebbero potute andare peggio”. “E ‘ passato un mese, Stefanie. Scendi da quel letto.” “La dovrai superare, prima o poi.” “Non lasciare che rovini la tua vita.”

Cultura dello stupro è che ti ha detto che dopo quello che ti aveva fatto, nessuno ti avrebbe più voluta. E tu gli hai creduto.

La cultura dello stupro insegna alle vostre figlie a non farsi violentare, invece di insegnare ai vostri figli come trattare le donne. Invece di insegnare che il sesso non è un diritto. Non si ha il diritto di fare una cosa del genere. La cosa peggiore che puoi dire ad una donna è troia, puttana, zoccola. La cosa peggiore che puoi dire ad un uomo è femminuccia, figa, puttana. La cosa peggiore che puoi dire ad una donna è che è una donna. La cosa peggiore che puoi dire ad un uomo è che è una donna. Essere una donna significa non avere nessuna forza, nessun potere, è l’insulto assoluto.

Quando avrò una figlia, le insegnerò che lei non è un insulto.

Quando avrò una figlia, lei saprà come combattere. La guarderò come si guarda il sole perché lei avrà la rabbia nei suoi pugni. Perché siamo esseri umani, e non sempre ci dobbiamo prendere quello che ci tocca in sorte. Tutti le diranno di non combattere il fuoco con il fuoco, ma avranno paura delle sue fiamme. Io le insegnarò il valore della parola “no” in modo che quando la sentirà non avrà dubbi.

Figlia mia, non ti azzardare a chiedere scusa perché ti ami con ferocia e vuoi proteggere te stessa.

Figlia mia, io sono viva perché mi amo, con ferocia, e perché mio padre mi ha insegnato a proteggere quell’amore. Mi ha insegnato che dovevo trovare la forza di salvarmi, alzarmi da terra e pulirmi la faccia perché l’unica cosa che ho, alla fine, sono io. Io sono viva perché mia madre mi ha insegnato ad amare me stessa. Mi ha insegnato che io sono un enigma – un mistero, un paradosso, un capolavoro incompiuto – e devo amarmi tanto da non rimanere ad osservarmi mentre mi spengo. Io sono viva perché anche quando mi hanno bloccata contro il muro, senza voce per gridare, sapevo che c’era dentro di me qualcosa per cui valeva la pena di lottare. E per questo, ringrazio i miei genitori.

Invece di insegnare a mia figlia a nascondersi, le insegnerò come esporsi. Perché no non significa “convincimi”. No non significa “lo voglio.” Voi mi chiamate “signorina, bella ragazza, bella donna”. Ma io non sono nessuna di queste cose per voi. Sono un’esplosione di luce, mia figlia sarà un’esplosione di luce.

E tu, meglio che ti copri gli occhi.

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